TESTO/FOTO: ANNA SERRANO, PHOTOGRAPHER
Come l’acqua che sgorga prepotente e traboccante dalla fontana di San Pietro, con quella stessa forza cristallina e sfrontata ci si presenta gagliardo il Barocco di Roma e ci travolge, corso d’acqua ininterrotto, fresco e traboccante dalle fontane che spuntano in ogni angolo, in un segno di vita, abbondanza e prosperità.
Siamo all’epoca della Controriforma. Il potere dei papi è uscito rafforzato dal Concilio di Trento e qualunque voce discordante con la dottrina di Santa Romana Chiesa è da reprimere. Come accadde a Giordano Bruno, bruciato il 17 febbraio del 1600 in piazza Campo de’ Fiori, un severo ammonimento per tutti.
Eppure, eppure contrariamente a quanto potrebbe sembrare di primo acchito, il barocco di Gian Lorenzo Bernini e degli altri suoi pari è un’arte che esprime vita e non morte, libertà di spirito e non repressione. È una forza vitale che, contro ogni calcolo di potere spirituale o temporale, rompe l’ingessamento dogmatico e monocorde del tempo e sconfina in una polifonia espressiva incontenibile.
Il Barocco è infatti fantasia e libertà, bizzarria e creazione: dal campanile spiralato su se stesso di Sant’Ivo alla Sapienza, alla cupola spugnosa di San Carlo alle Quattro Fontane (chiamato dai romani San Carlino per distinguerlo da San Carlo al Corso), gli esempi si susseguono al ritmo gorgogliante delle acque fontanili: la scala d’ingresso di Palazzo Barberini dalle curve voluttuose, il Palazzo Doria Pamphilj, il corpo sensuale e lussurioso della statua del Bernini nella fontana a Largo del Tritone che beve ingordo e noncurante da una conchiglia mentre i fluidi si sversano sul suo corpo muscoloso, sodo e possente.
Il barocco è rotondo anche quando è spigoloso, una nuvola dalla quale farsi cullare, un qualcosa di onirico e di fisico. È il trionfo della vita, della carne. E dello spirito attraverso di essa: l’ipostasi.
Il dinamismo e l’audacia della statua della Fontana dei Quattro Fiumi a Piazza Navona, opera del Bernini, che le fa alzare la mano a modo di protezione da un eventuale crollo di Sant’Agnese in Agone, la chiesa dirimpetto progettata dal Borromini, suo eterno rivale. La stessa chiesa: un tripudio di marmi e di corpi in un festival di curve e rotondità, di luci e d’ombre che sono un canto di vita e di passioni. Una vita che trasuda anche negli affreschi della sala degli Orazi e Curiazi a Palazzo dei Conservatori pur rappresentando durissime scene di morte.
Si è detto spesso che il Barocco bada alla forma esterna ma non all’interno, alle apparenze più che al succo e che il virtuosismo che mette in mostra è l’antitesi del minimalismo. Tutto è esuberante, è spreco, è abuso dei fasti, panico di scarsità.
Eppure, eppure una visita ai luoghi del Barocco romano ci rivela un viaggio interiore verso noi stessi, così profondo da smuoverci come un’onda pigra nata da tempeste lontane. Le ombre, i bassifondi, le luci, le passioni del Caravaggio incorniciate a San Luigi dei Francesi e a Santa Maria del Popolo parlano di passioni intense e mai sopite.
Far visita al barocco romano è come darsi appuntamento con un amante. È come andare al cinema, o meglio, è come essere dentro a un film, dentro alla grande e colossale bellezza di Roma che, sotto alla maestà del cupolone che canta Antonello Venditti, ci fa chiudere un occhio davanti alle bruttezze che la città moderna neanche si affanna a nascondere.
Amore e dolore. Questo è Roma e lo è inevitabilmente. Un sentimento di tormento ed estasi martellante che il Barocco sottolinea e ti sbatte in faccia, impudico e beffardo, magnifico ed eloquente.
Non resta che perdersi nei meandri delle sue curve graficamente ben rappresentate nelle colonne attorcigliate della basilica di San Clemente o quelle altre del baldacchino di San Pietro. Perdersi e arrendersi infine davanti ai suoi fasti e sognare, contenti dell’eterno inganno, cullati dall’illusione che l’abbondanza non finirà mai e che i corsi d’acqua scorreranno sempre, come nei salmi della Bibbia.