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BEIRUT IL GRANDE TEATRO DEL MONDO

TESTO E FOTO DI ANNA SERRANO

Beirut, scenario mediterraneo intenso nel quale si mettono in scena tutti gli aspetti del­la condizione umana ma in forma esagerata. Una cassa di risonanza nella quale la guerra ha messo in evidenza le contraddizioni, gli odii, gli amori e i deliri della grande famiglia dell’uomo divisa e confrontata da tribù inconciliabili che a tratti a vivono in uno stato di semi-pace, altre volte si scontrano violentemente, altre ancora si mischiano timidamente, toccandosi un po’ lungo i bordi…

8 ritratti di 8 artisti. Beirut come cornice, la guerra come marchio, marchio di fuoco. Inde­lebile. I ricordi come delle nuvole del passato che non vogliono andare via, e il futuro come una spada di Damocle che pende sulle teste di tutti. Il respiro trattenuto, temendo il peggio. L’arte come unico riscatto, unico senso possi­bile davanti all’assurdo.

PHILIPPE ARACTINGI

Philippe Aractingi, regista. “Sotto le bombe” girata durante a guerra, con delle esplosioni reali, dei morti reali, con due attori professio­nisti e il resto gente comune. La protagonista, alla ricerca del figlio scomparso, ad A un cer­to punto durante il film dice: “Non mi interes­sa Israele, non mi interessa Hezbollah. Non è la mia guerra. E’ mio figlio.” Il suo ultimo film “Listen” tratta di due giovani di classi sociali e religione diversa innamorati e separati dalla famiglia. Shakespeare alla libanese.

Aractingi mi chiede dove voglio fargli il ritrat­to. In un posto dove ci si identifichi, gli dico. Mi porta sulle montagne. Le montagne del Li­bano, quel paese così piccolo in mezzo a gi­ganti. Montagne che sono come una schiena alla quale il Libano si appoggia davanti a un abisso dal quale la rupe precipita nel Mediter­raneo orientale. Mi conduce nel giardino della sua infanzia, fra le rovine e i pini, e mi mostra i luoghi nei quali correva e sognava, quando la vita era una grande tela ancora da dipingere e sembrava un cammino eterno. E’ anche docu­mentarista. Documenta tutto quello che vede, come in un grande quadro di Brueghel.

HYAM YARED

Hyam Yared, scrittrice, fra i suoi titoli: “La Ma­ledizione”, “L’armadio delle ombre”, “Estetica della predazione”. E’ una donna forte, decisa, chiara, intensa e accogliente. Madre di 5 figli, è la grande madre di tutti e donna indipendente in contemporanea. I suoi occhi allegri ci indi­cano di avvicinarci senza temere. Generosa, sorridente, un po’ distratta e innamorata delle parole. L’asse portante della sua opera è l’ac­cettazione della vulnerabilità come porta verso la crescita interiore. Maestra nel narrare i suoi sentimenti, spogliarli davanti a degli specchi di stanze di case che sono rifugi, grotte, nidi. E che proteggono dalla guerra, dalla barbarie, dall’orrore. Da casa sua, straripante di opere d’arte, lontano dal centro storico di Beirut,dal­le finestre enormi della sala da pranzo si scor­ge IN nella lontananza l’orizzonte della città. La fotografo davanti a un quadro enorme nel quae delle bombe nere ed enormi cadono sul­la città. Durante la seduta fotografica ci guar­da sua nonna, la cui morte l’avrebbe segnata per sempre, alma mater dell’universo Yared e personaggio femminile del quale la scrittrice si nutre per analizzare ed esprimere il mondo davanti a se stessa e davanti agli altri.

KATYA TRABOULSI

Katya Traboulsi è di una semplicità maesto­sa. La sua lunga chioma, i suoi occhi delicati, il movimento silenzioso delle sue mani. Parla basso e trasforma le bombe in arte. Nella sua mostra Perpetual Identities, ogni bomba rap­presenta una identità nazionale. Per esempio, la bomba della Palestrina è composta da mol­te chiavi antiche. Chiavi di porte di case di fa­miglie e di universi perduti. Oppure per esem­pio, la bomba dell’Austria ha nella cuspide la lettiera di bronzo dorato della cupola moder­nista del Palazzo della Secessione di Vienna. La bomba del Libano è di cemento grigio ed è avvolta da filo spinato. La bomba uzbeka è multicolore e porta delle collane di argento. La bomba del’Iraq ha un volto. Volto di una statua antica di millenni. Katya la guarda negli occhi, mette le sue mani soavi sul suo volto, come se fosse una persona amata alla qua­le si avvicina dolcemente. Accarezza il volto alla bomba, alla statua, alla storia. E’ un dia­logo fra anime. La sua prossima mostra sarà a New York, giugno 2019, nelle nazioni Unite…

NADIA SAFFIEDINE

Nadia Saffiedine posa davanti ai suoi quadri come se fosse un cavaliere di secoli fa. Le manca soltanto portare la mano al petto. E’ una donna forte, determinata, di onore e rigo­re, senza nessuna condiscendenza davanti alla stoltezza. Malgrado la sua espressione tassativa, è di conversazione facile, lunga, gradevole. Chiede e ascolta attentamente. I suoi quadri sono delle tele d’orrore, di lotta nelle quali si sottolinea la non accettazione della barbarie, il rifiuto del contro il delirio im­perante. Ha vissuto a Berlino dieci anni e si muove fra l’Oriente e l’Occidente in un valzer di passi cangianti. Ha esposto nel 2018 nella sala Agial Art Galery, nel distretto di Hamra, sotto il titolo “Woman in a stream”.

NADIA TABBARA

Nadia Tabbara, sceneggiatrice. Cresciuta a Boston, incominciò la sua carriera a New York, ma chiarisce on orgoglio che la sua famiglia è di Ras-Beirut, il quartiere “più autentico” del­la città nel quale vive attualmente. Autrice di uno dei capitoli del libro “Arab Women”. Fon­datrice dell’accademia Fade In Beirut nell’anti­co quartiere di Mar Mikhael, scuola nella qua­le insegna a scrivere sceneggiature, romanzi, racconti, poesia, approfondire spiritualità e a utilizzare la narrazione come strumento di crescita. Semplice e cordiale, quando le si chiede perchè scrive risponde che vuole “pre­stare la sua voce”.

E’ tornata in Libano per far sì che gli occiden­tali possano avere un’altra visione degli arabi, per poter “raccontare la nostra verità piuttosto che la raccontino altri al posto nostro”. Sce­neggiatrice della serie di televisione “Awake”, che tratta di una donna che deve “trovare se stessa stessa in un mondo che non ricono­sce”.

LUCIEN BOURJEILY

Lucien Bourjeily è un drammaturgo conosciu­to per il suo attivismo politico e l’uso dell’im­provvisazione per eludere la censura. Nel suo film “Heaven without people” una famiglia si riunisce per festeggiare la Pasqua e finisce per litigare animosamente. Tale quale la sto­ria del Libano. Tale quale la storia del mondo. Bourjeily è uomo di poche parole. Si siede su una panchina nel parco dietro casa sua, dove spesso va alla ricerca di ispirazione, pace e verde. Immerso in se stesso , incomincia a scrivere a matita su un quaderno, nel silenzio più assoluto. Gli fu ritirato brevemente il pas­saporto e due anni fa si fece virale una foto nella quale lo si vedeva per terra privo di co­scienza, , con una maschera di ossigeno, as­sistito dai medici di urgenza dopo una carica della polizia.

KAREN KLINK

Karen Klink, tatuatrice e illustratrice, abita a Barcellona da 12 anni. Andò via dal Libano nel 2006 assillata dalla guerra e con la curio­sità di scoprire nuovi mondi. Ogni due mesi viaggia a Beirut e vi si ferma un mese. Una lunga lista di gente le offre la sua pelle per­chè lei la converta in un grande telo nel qua­le lei ama riprodurre dei mondi fittizi e delle creature antropomorfiche. Una calligrafia per un linguaggio in codice. Nella foto la si vede mentre tatua il braccio di Dimitri Haddad, pro­prietario della galleria d’arte Artlab, nel quar­tiere di Gemmayzeh. Lui ha deciso di confida­re affidare (confidare è per i segreti non per gli incarichi) a Karen la riproduzione della sua casa di infanzia, occupata per diversi anni dai palestinesi.

Carla Hanoud è giornalista del diario franco­fono L’Orient-Le Jour. Una penna agile e pro­lifica così come una voce femminista accre­ditata. Da brava giornalista, Carla è fra tutti quanti quella che spiega in forma più didatti­ca, chiara e analitica la situazione nel Libano: “Viviamo un conflitto che è più grande di noi. Non si tratta solo del Libano, ma degli Stati Uniti, dell’Iran, etc.” Spiega la strana sensa­zione che ebbe quando la sua famiglia ritornò nella casa occupata durante 30 anni, e rivi­de la carta da parati sui muri. A Beirut molte cose sono cambiate, molte continuano intat­te. Come il grattacielo El Murr, oggi abban­donato e vuoto, fantasmagorico – l’ingresso è oggi bloccato da militari trincerati dietro a sacchi di sabbia – dalle sue finestre i cecchini sparavano ai passanti. Questi palazzi ancora in piedi sono dei degli autentici morti viventi.

CARLA HANOUD

Carla è Anche fotografa, ha pubblicato un li­bro sulla Corniche di Beirut, uno spazio ma­gico fotografato sotto tutte le luci e le ombre. Spiega che nelle sue foto ha inquadrato in modo che si veda il blu del cielo e del mare, ignorando la spazzatura circondante: isolare dei frammenti e ricreare dei mondi, inquadra­re quello che uno ama e ignorare quello che no non ama, come unica formula per soprav­vivere. “I politici si muovono a seconda de­gli interessi personali, E io non ho messo lì quella spazzatura. Né posso neanche levarla. L’unica cosa che posso fare è individuare la bellezza aldilà dei rifiuti della spazzatura, in­quadrarla e sopravvivere”. Coltivare il proprio giardino come missione e come salvezza.

Chi ha vissuto la guerra, ha imparato a vivere il presente poiché, ancora meno di chi vive in pace, non sa mai quando morirà. Pero questo motivo, a Beirut, la forza vitale scoppia con una tale forza che tutto si ricostruisce E si ricrea, si organizzano dei festival di musica, delle mostre, si fanno dei film, qualsiasi ini­ziativa che esprima la volontà indomabile di andare avanti malgrado tutto. “Il Libano è uno caos organizzato che non si riesce a capire come è che funzioni. Un paese nel quale con­vivono gli ultramoderni e gli ultraconservatori. E’ un miracolo. Non è un paese che si visita, bensì una esperienza che si vive”.

Unisce a tutti quanti una grande lucidità. “Tut­to è emozione, tutto è passione, tutto è colle­ra” dice Carla

Beirut, il grande teatro del mondo. E l’arte come balsamo nel paese dei cedri.

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