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L’ULTIMA CASA A SINISTRA

SCRIVE: DOMENICO VETRÒ

Faceva davvero caldo e il sole accom­pagnava i ragazzi che passeggiavano e scherzavano nella stradina sterrata che portava al loro campetto, mentre Marco palleggiava con il pallone assorto e serio nei pensieri della sua matematica. In lon­tananza si udì un rumore di pneumatici che scivolavano sulla sabbia mista a pic­coli sassi, i ragazzi si voltarono e videro dirigersi verso di loro una Range Rover nera procedere sufficientemente piano. Si spostarono sul ciglio della strada e at­tesero che la macchina li superasse per poi riprendere il cammino, ma proprio davanti a loro l’autista premette brusca­mente il freno lasciando scivolare il suv sullo sterrato e abbassò il finestrino del passeggero proprio davanti a Marco.

“Scusate ragazzi, temo d’essermi perso e forse potreste essermi d’aiuto… Sto cercando la villa dei Mirante, sapreste darmi indicazioni?”.

Fecero tutti un piccolo passo indietro, mentre Marco quasi intimorito rispose indicando la direzione oltre la collina alzando il braccio destro: “L’ultima casa a sinistra, ma è…”. Non ebbe tempo di continuare che la macchina si era già messa in movimento lasciando dietro di sé una scia di polvere. A quel punto Mar­co urlò sperando d’essere udito: “… E’ STREGATA!!”. Nulla, era già lontano.

I ragazzi si guardarono tra di loro e si mi­sero subito a correre per raggiungere la cima della collina e cercarono un nascon­diglio da dove poter spiare senza essere notati. Il fiato era rotto in gola, i cuori pulsavano frenetici e gli occhi sgranati erano puntati sulla villa in stile vittoria­no, immersa ormai in un verde incolto. Appena la Range Rover si avvicinò alla cancellata di ferro battuto, il cancello si aprì da solo provocando un rumore fastidioso che poteva assomigliare a un cigolio. La porta d’ingresso s’aprì ma dal­la casa non uscì nessuno.

“Avete visto? Il cancello si è aperto da solo e non è elettrico: non ci sono né fo­tocellule, né la luce gialla che indica l’ap­ertura automatica”. Videro l’uomo scen­dere dall’auto e dirigersi verso l’ingresso, qualcuno dei ragazzi disse a voce alta di non entrare, ma… entrò. Gattoni gattoni tornarono sulla strada, mentre una brezza proveniente da Est iniziò a soffiare. Un atti­mo dopo udirono un urlo assordante preve­nire dalla villa, ma non aveva nulla d’umano quel suono, sembrava giungere dagli inferi e i ragazzi fermarono i loro passi. I loro corpi furono attraversati da una sensazione di gelo e di brividi e i loro occhi impauriti si guardaro­no stupefatti. Subito dopo la brezza cambiò direzione, spostandosi verso Nord-Est.

Ciò che avevano visto e udito divenne il centro dei loro discorsi, opinioni su opinioni, racconti avvalorati da altri racconti di uomini più grandi e fantasticherie varie solite della giovane età. “Una volta sentì il sindaco dire a mio padre che…” più la fonte era ritenuta importante e influente più questa poteva passare come notizia attendibile.

Quel pomeriggio al campetto non si giocò a pallone, ma si sedettero all’ombra della quer­cia al confine con il campo da gioco che soli­tamente faceva da riferimento come limite, di fronte a loro il muro in cemento armato con il filo spinato sulla sua sommità che divideva i ragazzi dalla vecchia proprietà dei Mirante.

“Mio zio una volta era il loro giardiniere!” disse Giovanni che per una volta aveva cat­turato l’attenzione degli amici. “Mi ha raccon­tato che il signor Mirante era un uomo molto ricco e rispettato in paese e che aveva fatto costruire questa villa per la giovane moglie della quale era molto innamorato. Pare che lei fosse bellissima e che proveniva dal paese più a Nord di qui. Però lei era stata costretta a sposarsi con lui altrimenti il signor Miran­te avrebbe licenziato il padre e la famiglia sarebbe morta di fame oppure, peggio an­cora, destinata a chiedere l’elemosina per le strade del paese. Lei accettò, ma dovette lasciare il suo amato e questo le spezzò il cuore.”

Vincenzo conosceva già quella storia e la tro­vava noiosa, così afferrò il pallone seguito da Andrea e s’avvicinarono al muro per giocare.

Giovanni continuò: “Un giorno un rivale in af­fari del signor Mirante, per fargli un dispetto, gli disse che la moglie aveva un amante e che era il ragazzo che lei aveva dovuto lasciare per lui. Lo scherzarono e lo fecero nel modo peggiore che si possa fare. Mirante si sentì deriso dalla gente del paese e umiliato dalla moglie, così, impazzito per la gelosia, tornò a casa dove caricò il suo fucile da caccia e sparò alla moglie dritto al cuore senza troppo pensarci. Una volta fatto questo chiamò mio zio e gli chiese di cercare il ragazzo amante della moglie. Quando il giovane giunse alla villa vide sull’uscio il proprietario di casa con gli abiti macchiati di sangue e senza pensarci troppo si fiondò in casa e vide il corpo del­la sua amata senza vita. Si dice che l’urlò si sentì in tutta la vallata e che persino la terra tremò quella sera. Poi la vita del ragazzo fu stroncata da un altro colpo di fucile del signor Mirante. Da allora si dice che che lo spirito di quel giovane vaghi per la casa in attesa del ritorno del proprietario per vendicarsi.”

Poi però la loro attenzione fu distratta e cat­turata da un pallonetto di Andrea che mandò il pallone proprio oltre la recinzione.

“Che ti avevo detto? Sei un cretino!” gli urlò Marco lasciando il suo posto sotto la quer­cia e avvicinandosi al muro in cemento. “Ora come lo prendiamo?”.

Dopo svariati tentativi per scavalcare pro­varono ad abbattere il muro lanciandogli del­le pietre, ma quando finalmente furono stan­chi e si avvicinarono alla parete si accorsero che non l’avevano nemmeno scalfito.

Luca, il padre di Marco, aveva appena conclu­so di dare un’occhiata al quaderno ordinato e alle operazioni svolte per raggiungere il risul­tato.

“E’ tutto giusto!” disse sorridendogli e to­gliendosi gli occhiali.

“Ma il libro non porta lo stesso risultato!” si lamentò Marco.

“Ma qui hai fatto anche la prova e ti esce. Quindi avrà sbagliato il libro, non pensi?” gli sorrise di nuovo il padre.

“I libri non sbagliano mai!” disse Marco con tono severo.

“Certo che sbagliano, se alcuni uomini si fos­sero fermati a pensarla come te non avrem­mo scoperto la gravità o staremmo qui a pensare che il mondo è piatto.” lo canzonò Luca. “Sai cosa intendo dire? Che a volte bi­sogna anche avere il coraggio di dubitare!” e gli fece l’occhialino stropicciandogli i capelli. “Che avete fatto oggi a scuola?”.

“Oggi la maestra…” e iniziò a guardare verso l’alto per rammentare “ci ha spiegato il ciclo vitale delle farfalle… come da bruco diven­tano farfalle… e l’ha chiamata… l’ha chiama­ta…” come se la parola giusta non gli volesse venire. “Metamorfosi!” disse soddisfatto. “Ho pensato che sarebbe bello essere una farfal­la, perché l’uomo non si trasforma?”.

“Ma l’uomo è in costante metamorfosi, lenta ma comunque si trasforma strada facendo. Leggende e mitologia a parte… Ti ricordi quando abbiamo studiato gli uomini primitivi? Ecco, noi siamo la loro metamor­fosi, proprio perché al mondo ci sono stati quegli uomini che hanno avuto il coraggio di dubitare. Per esempio tu sei la metamorfosi mia e di tua madre. E non appena diventerai uomo sarai la tua stessa metamorfosi.”

(Marco) di carattere era difficilmente arren­devole e tutto gli si poteva dire tranne che qualcosa non era possibile. Così come nello svolgimento del compito di matematica era anche nella vita e l’idea che con il suo pal­lone adesso stesse giocando uno spettro lo mandava su tutte le furie. Trascorse la prima notte insonne con quaderno in mano e una matita da disegno. Foglio dopo foglio cercò una soluzione e appuntava una strategia. Aveva pensato a fare dei buchi nel muro per arrampicarsi, o di prendere il pallone utiliz­zando una canna da pesca, aveva studiato anche altri possibili modi come per esempio paracadutandosi da un aereo, già… ma dove avrebbe potuto trovare un velivolo? Nulla, sembrò non trovare soluzione. Quel muro era insormontabile ed era l’unica cosa, insieme alla paura dello spettro cattivo, a dividerlo dal suo pallone. Il mattino seguente a scuola ne parlò con i suoi amici ed erano giunti a un ac­cordo sulla strategia da seguire. Così in paese si vide passare nella piazza un gruppo di ragazzi che portavano sulla spalla una lunga scala di legno armati di una forbice per la car­ta. In teoria infatti, per come avevano ragion­ato i ragazzi, era tutto perfetto, nella pratica però la scala non era sufficientemente alta.

A seguito dei vari tentativi fallimentari il fatto aveva portato con sé nei pensieri di Marco tante altre domande: “come mai papà, sapendo che vicino casa c’è una villa stregata, ci fa vivere qui? perché in famiglia non si è mai parlato dello spirito che abita quella villa?”. Domande che erano destinate a rimanere senza risposte le quali solo gli adulti sembravano possederne. Allo stesso tempo la voce del padre sembrava ripetergli: “a volte bisogna avere il coraggio di dubitare!”. Il cor­aggio… Lui non sapeva nemmeno cosa fosse.

Aveva riunito i suoi amici per far loro pre­sente che sarebbe entrato in quella proprietà passando dal cancello principale.

Marco si avviò risoluto seguendo il sentiero, mentre gli amici curiosi s’appostarono dietro al grande masso. Mostrava un’apparente calma, ma ad ogni singolo rumore il sangue nelle vene si gelava. “Maledette lucertole!” pensò. Voleva davvero dubitare su un ven­tennio di brutte storie? Ne valeva davvero la pena? E da dove proveniva quel coraggio? Non dovette nemmeno bussare. All’inizio fece due passi indietro dettati dalla vigliac­cheria, poi la sua attenzione andò verso l’in­gresso principale della villa dove la sagoma di una bambina spalancò il portone spingen­dolo con tutte e due le mani. Gli occhi neri di Marco scrutarono l’interno del giardino dove era ancora parcheggiata la Range Rover e, senza spiegarsi come, le gambe iniziarono a muoversi per oltrepassare il confine che lo divideva tra la vita e gli inferi.

“Non credo tu abbia l’età per guidarla!” scherzò la bambina che a quel punto fece qualche passo in avanti verso di lui. “E’ di mio padre, ci siamo appena trasferiti qui!”.

Marco le sembrò impaurito e lei trovò la cosa molto divertente, ma evitò di terrorizzarlo oltre misura.

“Io sono Chiara!” disse lei porgendogli la mano.

Lui non poté non ammirare i lineamenti di quella bambina che più o meno doveva es­serle coetanea, ma lo sguardo di Marco fu catturato dal colore degli occhi di un blu co­balto acceso che venivano coperti dai capelli biondi appena una piccola brezza le accarez­zava la folta chioma. “Mar… Marco!” e le tese la mano.

“Piacere Marco!” sorrise lei. “A cosa dobbia­mo la tua visita?”

Spiegata la situazione lei accompagnò il rag­azzo tra la fitta vegetazione del giardino.

Marco scoprì di avere la stessa età di Chiara e conobbe una ragazza con uno strano senso dell’humor, sembrava capire in anticipo i suoi pensieri e per questo lo canzonava senza pensarci sù due volte, che fosse una femmi­na a farlo non gli andava a genio ma in fondo gli piaceva da morire.

“Noi giochiamo qui dietro, perché non vieni uno di questi giorni?” la invitò lui.

“Giocare a pallone?? Non è una cosa da femmine!” replicò lei. Negli occhi di Marco un alone di dispiacere dinanzi a quella risposta, cosa che lei notò subito e continuò a dire: “però potrei venire a guardare e a fare il tifo per te!” Dinanzi a quell’affermazione Marco sorrise e si sentì stranamente felice.

“Vuoi sentire una cosa?” chiese lei con uno sguardo di chi vuole farti stupire. Lo prese per mano e fece cenno a Marco d’abbassarsi e avvicinare l’orecchio. “Ascolta!” Il vento s’in­canalava nella canalina e produceva un urlo metallico, lo stesso suono grave che lui e i suoi amici sentivano quando a soffiare era la brezza dell’Est.

“Quindi è il vento…” concluse.

Quando Marco si diresse verso il cancello per tornare a casa alzò lo sguardo compiaciuto verso gli amici increduli e un sorriso acca­rezzò le sue labbra. Il rumore della struttura in ferro che si apriva attirò di nuovo la sua attenzione e notò quella strana luce gialla a intermittenza, che per gli amici mancava, coperta dalla folta edera. A passi decisi e con la soddisfazione di un reggente s’avviò oltre il cancello.

Marco aveva varcato quella soglia da bambi­no, ma al ritorno aveva conosciuto il suo cor­aggio nel dubitare, si era lasciato trasportare dalla bellezza di una bambina e dai suoi modi gentili, aveva scoperto la delusione dinanzi a una negazione e aveva gioito quando quel rifiuto si trasformò in consenso. Marco usci­va cambiato da quella proprietà, perché da lì venne fuori un uomo.

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